Ex rosa, Caracciolo: «Ho fatto i migliori anni del Palermo, eravamo in A e lottavamo con le grandi»

Andrea Caracciolo a Fanpage.it ha raccontato la sua nuova esperienza nel mondo del calcio con il Lumezzane ma anche parlato del suo passato da calciatore.

Di seguito le sue parole:

«Lumezzane? È un ruolo particolare, chiaramente molto diverso da quello del calciatore. Io sono in una società atipica perché solitamente i presidenti sono proprietari mentre io sono un dipendente ma ho poteri di firma, decisionali, e tutto il resto. Mi sta insegnando tanto questa esperienza e mi sta formando in quello che potrebbe essere un ruolo per il futuro. In questo momento si cercano sempre più manager e potrebbe essere una buona scuola di formazione. Ad esempio, ci sono sempre più fondi che vengono dall’estero che cercano manager del posto, figure che conoscono l’ambiente: questo è molto formativo in quel senso. Bisogna sempre guardare avanti, ogni cosa che si fa, e avere uno sguardo sul futuro. Sono arrivato qui grazie ad un mio caro amico, Piero Serpelloni, che mi chiamò per sapere delle informazioni su un preparatore. Io gli chiesi a cosa gli servisse e lui mi rispose che era per il Lumezzane. Scambiammo qualche battuta sulla società ma lui già si era fatto già tutti i suoi film in testa mentre parlava con me. Poi mi ha richiamato e mi ha parlato di Ludovico Camozzi, con il quale ho avuto un incontro pochi giorni dopo. Rimasi ammirato dall’empatia che emanava questo imprenditore, dai suoi progetti e dalle sue ambizioni. Voleva riportare il club tra i professionisti e unire anche progetti sociali al nome della squadra. Mi dice: ‘Gioca ancora finché riesci, porta la squadra in C e poi fai il direttore sportivo’. Non potevo rifiutare un’offerta del genere. E così sono arrivato a Lumezzane. Il Covid ha rallentato un attimo il percorso ma la tabella di marcia è stata rispettata».

«Brescia è stata magia, è stato amore. Sono sempre molto attento alle dinamiche del club ed è un amore che non si può cancellare. Io penso che il mio nome a Brescia non morirà mai ma non è solo una questione di numeri, che sono molto importanti e lo sappiamo tutti; ma il legame che io ho avuto con i tifosi è stato qualcosa di unico. Sono cinque anni che non gioco più nel Brescia ma c’è ancora chi mi chiede le foto, chi mi abbraccia, chi mi chiama ‘capitano’ e mi ringrazia per quello che ho fatto. Ho lasciato delle emozioni che tanti hanno vissuto con me, ho sempre messo la faccia anche nei momenti più difficili e fortunatamente qualche gol l’ho fatto. Se le cose andavano bene o andavano male la gente sapeva che c’era Caracciolo. Io sapevo che la gente mi voleva bene e si era cerata un’empatia incredibile. Palermo? Sono stato fortunato perché ho fatto i migliori anni del Palermo: eravamo costantemente in Serie A e lottavamo con le grandi, oltre a fare l’Europa League. Putroppo io non sono arrivato con la testa giusta: iniziai bene, qualche tifoso mi urlava dietro ‘Minchia van Basten’ (ride, ndr); ma poi ebbi un calo fisico e arrivavo dopo Luca Toni, quindi si aspettavano 20 gol. Io il girone d’andata ne ho fatti 5 colpendo pali e traverse a ripetizione. Hanno cominciato a criticarmi perché si aspettavamo di più e più mi criticavano e più io mi chiudevo. Avevo mollato. In estate volevo andare via e c’era la Roma che era molto interessata: non mi fecero andare via perché Guidolin diceva che con lui potevo giocare ovunque in attacco. ma poi ho cominciato a non giocare e a diventare sempre più antipatico. Non l’ho gestita bene, ripensandoci oggi mi dispiace perché era una grande piazza e potevo esser meno permaloso. No, ma perché il calcio è cambiato completamente. In tutto. Basta vedere cosa è successo e com’è finita ai calciatori che hanno legato il loro nome ad un squadra per tutta la carriera. Anche io sono stato costretto ad andare via. È difficile ed è una questione di valori. Anche i grossi club ora non sono più un punto di arrivo ma sono sempre un passaggio per un altro step successivo, che può essere all’estero o qui. Poi c’è da dire che quando eravamo piccoli noi non smettevamo un attimo di giocare a calcio mentre ora, e lo vedo con i miei figli, ci sono la Playstation, il telefono, la tv e tanto altro che prima non avevamo. È un altro mondo. Lo sport è una palestra di vita e per fortuna che almeno grazie allo sport escono di casa, io metterei allenamento tutti giorni solo per questo».

«È molto più facile adesso. I miei primi anni di Serie A, quando capitava che nelle prime giornate ero in testa alla classifica cannonieri, io affiancavo gente come Adriano, Trezeguet, Ibrahimovic… un livello impressionante. Io ho iniziato a giocare in Serie A contro Maldini, quindi era molto più difficile arrivare davanti alla porta. C’era una qualità altissima. Anche per andare in Nazionale, dovevi essere continuo nel far gol e vincere. Adesso basta un gol e qualche prestazione per essere convocato. Ho fatto due presenze con la maggiore e ho vinto l’ultimo Europeo dell’Under 21. Era il 2004 e il CT era Gentile. Eravamo una buona squadra, c’erano Barzagli, Zaccardo, Gilardino, De Rossi, Bonera, Borriello, Sculli, Palombo, Pinzi… eravamo una squadra forte. Siamo in una fase di cambiamento, dobbiamo un po’ ricostruirci e ripartire dai settori giovanili per costruire i giocatori. Stiamo vivendo questo ciclo e siamo di fronte ad un cambio generazionale ma probabilmente è solo un momento. Il mio sogno da ragazzino era arrivare in Serie C, quella di una volta, diversa da quella di oggi. Negli anni ’90 sempre con gli stadi pieni, altro livello. Quando parlavamo con i miei amici del quartiere a Cesano Boscone lo dicevo sempre: ‘A me basterebbe arrivare in C’. È andata meglio».