Achille Costacurta: «Palermo mi ha salvato. La curva del Barbera mi ha accolto, ora sogno un centro per ragazzi Down»
Ha vent’anni, un cognome pesante e una storia dura sulle spalle. Ma a Palermo, e precisamente a Mondello, Achille Costacurta ha trovato un nuovo inizio. «Nessuno mi ha chiesto chi fossi o cosa avessi fatto prima», racconta dalle pagine di Repubblica Palermo in un’intervista firmata da Irene Carmina. Figlio di Billy Costacurta e Martina Colombari, Achille porta con sé un passato fatto di dipendenze, Tso, risse e un lungo periodo in un centro penale minorile. Ma è proprio in Sicilia che, per quattro mesi, ha rimesso insieme i pezzi.
«Sono arrivato a Mondello a febbraio. Il primo giorno entro al bar Galatea, chiedo dov’è il supermercato e mi offrono le chiavi del furgone per andarci. Ecco cos’è Palermo. A Milano non mi è mai capitato, neanche con amici di una vita», dice. Il capoluogo siciliano, per lui, è stato accoglienza, empatia, silenzio sul passato. «La gente non giudica, ti tende la mano. Mi ha aiutato come l’India durante Pechino Express: se scegli quella terra, ti trattano come sacro».
La sua rinascita passa anche dallo stadio Barbera: «Ogni domenica in curva nord, a tifare Palermo». E da Monte Pellegrino: «Andavo a trovare l’eremita». Un percorso nuovo, lontano dalla Milano che gli causava ansia, e che ha coinciso con un ritorno alla vita: «Non tocco più droghe, ho recuperato il rapporto con i miei genitori. Ora, se torno tardi, li chiamo. Prima litigavamo ogni giorno».
Achille non ha paura di raccontare il buio: «A 17 anni ho tentato il suicidio con sette boccette di metadone. L’equivalente di 40 grammi di eroina. Ero nel centro penale minorile di Parma, dopo un anno e sette mesi non ce la facevo più. Nessuno sa spiegarsi come io sia ancora vivo». Il ricordo di quell’esperienza è duro: «Entrai che avevo 15 anni. Se saltavi la colazione, ti toglievano una delle dieci sigarette giornaliere. Una volta un agente mi ha rotto la sigaretta in faccia. Gli ho sputato e mi hanno preso a schiaffi».
Un altro episodio segna il punto di svolta: «A Milano, due anni fa, ho lanciato un paio di scarpe Gucci dal taxi e ho rotto una telecamera. La tassista ha chiamato la polizia. Ho preso due pugni e ho reagito». L’inizio della discesa era stato al suo diciottesimo compleanno, con l’assunzione di mescalina: «Mi sentivo Dio. Regalavo collane d’oro ai barboni, portavo ragazzi che fumavano crack a casa mia per fargli fare una doccia. Ma stavo distruggendo me stesso. Le droghe sono il demonio».
Oggi, però, Costacurta guarda avanti. Ha un sogno: «Voglio aprire un centro per ragazzi con sindrome di Down. Aiutare gli altri mi fa sentire le farfalle nello stomaco». E porta dentro di sé un insegnamento chiaro, trasmesso dalla sua famiglia: «Il rispetto per le donne. Non ho mai alzato la voce. Me lo ha insegnato papà».
Un giovane uomo rinato, anche grazie alla Sicilia. E oggi pronto a restituire ciò che ha ricevuto.
