«Allenare la Palestina è resistenza»: la sfida di Ihab Abu Jazar tra guerra, esilio e speranza

Pallone Euro2024/ fonte LaPresse- ilovepalermocalcio.com

In Palestina persino la normalità fa paura. «Sa qual è la cosa che temiamo di più? Il telefono. Ogni notifica potrebbe dirci che è morto un amico o un familiare», confessa Ihab Abu Jazar, ct della nazionale palestinese dal 3 dicembre 2024. L’ex calciatore parla da un checkpoint di frontiera, in viaggio verso le gare contro Malesia e Libia. Le partite “in casa” si giocano a Doha: l’ultima a Ram risale al 15 ottobre 2019, 0-0 con l’Arabia Saudita. L’esilio sportivo dura ormai 2155 giorni.

«Sono nato a Rafah, oggi una città rasa al suolo – racconta Abu Jazar –. Uscire dal Paese significa affrontare checkpoint che ti fanno perdere ore per un solo chilometro. È il primo segnale di quanto sia difficile far parte della nazionale palestinese».

Allenare la Palestina significa molto più che guidare una squadra. «Non giochiamo davanti ai nostri tifosi, non possiamo radunare i giocatori in patria né comunicare liberamente. Il mio ruolo trascende lo sport: raccontare al mondo il nostro calvario e trasformare il dolore in forza. Allenare la Palestina è una forma di resistenza».

La situazione sportiva è drammatica: «Il campionato è fermo da tre anni, non ci sono competizioni giovanili. Più di 280 impianti sportivi sono stati distrutti o usati come centri di detenzione. Lo sport da noi non esiste più. Ho perso oltre 250 tra parenti, colleghi e amici, compreso il mio vice Hani Al-Masdar, ucciso mentre consegnava aiuti. Anche Suleiman Al-Obeid, il “Pelè della Palestina”, è morto in coda per il cibo. Uno perché aiutava, l’altro perché aveva bisogno di aiuto. Questo è il nostro dramma».

Eppure il calcio palestinese resta un simbolo di orgoglio. A marzo la nazionale ha battuto l’Iraq per la prima volta in una qualificazione Mondiale. «Da Gaza ci hanno mandato video di famiglie che compravano benzina per i generatori pur di vedere la partita. Per qualche minuto siamo riusciti a distrarli dall’orrore».

Un messaggio arriva anche all’Italia, che affronterà Israele nelle qualificazioni al Mondiale: «Osservate un minuto di silenzio per i bambini di Gaza, issate la bandiera palestinese sugli spalti, intonate cori per noi. Nel 1982 l’Italia dedicò il Mondiale al popolo palestinese. Ora serve un altro segnale forte».

Motivare i giocatori in simili condizioni è un’impresa. «Alcuni hanno perso la madre, il padre, un fratello. Io dico loro di non mollare. La Palestina ha poeti, artisti, pensatori, atleti: il calcio è il nostro modo per dimostrare che non siamo l’immagine dipinta da Israele. Ogni partita è una prova di forza, delle nostre radici e del nostro diritto a vivere con dignità».

Prima di entrare in campo, lo spogliatoio risuona sempre delle stesse parole: «Resistere finché abbiamo fiato e polmoni».