De Zerbi «Io, la guerra, la fuga. Guardo l’Ucraina e ci vorrei tornare»

L’edizione odierna de “La Gazzetta dello Sport” si sofferma sulla Guerra in Ucraina attraverso le parole di Roberto De Zerbi.

Nell’elegante ufficio in centro a Milano, il canale all news trasmette le immagini dall’Ucraina. «Guardo tutto. Dalla mattina alla sera. Non riesco a vedere altro, nemmeno le partite». Roberto De Zerbi è scappato dalla guerra. Ma in Ucraina ci tornerà. Ci vuole tornare. Questo è il suo racconto. Lucido, asciutto. Anche se in certi passaggi si avverte il groppo in gola. «Provo un grande vuoto. Sto peggio adesso dei giorni passati a Kiev sotto le bombe. Là c’era da fare: organizzare la fuga per noi e i giocatori, parlare con l’ambasciata. Qui non si può fare niente. Solo guardare. Sentire chi è ancora là». In realtà De Zerbi sta facendo tanto per chi è rimasto, ma per pudore non vuole dirlo pubblicamente.

Qualcuno che conosci si è arruolato?

«Un magazziniere e un giocatore, ma non in prima linea. A Kiev per fortuna non c’è più nessuno, siamo riusciti a spostare i giocatori nella parte occidentale del Paese. Portarli fuori purtroppo non si può: chi ha tra i 18 e i 60 anni non può lasciare l’Ucraina. Alcuni dipendenti vivevano a Irpin, le loro case sono state bombardate. Il dottore abita a Obolon, bombe anche lì».

I segnali c’erano da un po’.

«Da dicembre si aveva notizia dei movimenti dell’esercito russo. Ma ci rassicuravano: è tutto un grande gioco, 190mila soldati non bastano a invadere un Paese di 42 milioni di abitanti. L’ambasciata italiana però ci aveva contattato per organizzare il piano di evacuazione già da quando eravamo in Turchia».

Dal ritiro ad Antalya rientrate il 19 febbraio.

«Il giorno di City-Tottenham. Dovevamo sorvolare il Mar Nero, ma c’erano esercitazioni russe. Campanello d’allarme. Arriviamo a Kiev, ci fermiamo in hotel: non sono mai tornato a casa, avevo una brutta sensazione. Lunedì 21 Putin fa quella conferenza stampa pazzesca: cinico, prepotente, dice che l’Ucraina non ha senso di esistere, riconosce il Donbass e Lugansk. Errore: l’ho visto con i dipendenti del club, tutti del Donbass e filorussi. E ora orgogliosamente ucraini. Comunque, pensavano tutti si fermasse lì. Il mattino del 23 facciamo allenamento, mica tanto tranquilli: in ufficio avevamo una mappa con le linee evidenziate per il tragitto da fare, verso la Polonia, la Slovacchia e la Romania. Alle 17 arriva un messaggio audio dall’ambasciata italiana: lasciare urgentemente il Paese. Ribadito da un whatsapp delle 20.27».

E cosa fate?

«Chiamo il d.s., Srna. Dario, ci dicono di andare via. Avevamo le nostre macchine, la mia l’avevo portata a settembre, è ancora là. Gli dico che però non possiamo partire così, dobbiamo dirlo ai brasiliani, con cui già ad Antalya ci eravamo riuniti perché c’era preoccupazione. Io avevo preso posizione con loro: se volete andatevene, ma finché non sospendono il campionato io resto qua. Mi ero preso una responsabilità nei loro confronti. Srna mi tranquillizza: al 70% sabato si gioca a Kharkiv. Perfetto. Andiamo a dormire in hotel. Alle 5 del mattino ci svegliano le esplosioni».

Che effetto fa?

«In realtà non ero preoccupato che un razzo colpisse l’hotel. Nei primi giorni gli obiettivi erano militari. La mia paura era la fuga. Da Kiev c’è una sola strada che porta a ovest, e al mattino c’erano già 70-80 km di coda. I benzinai avrebbero finito le scorte, mangiare e bere sarebbero finiti. Il rischio era stare 3 giorni in coda, come ha fatto Fonseca, sul pullman con cui è partito il giorno dopo. Il rischio era che se non morivi di bomba o di fucile, rischiavi di morire di fame, di sete, di freddo. Così abbiamo convinto i brasiliani a non partire subito. Siamo rimasti chiusi in hotel da giovedì a domenica, dormendo al piano -1 dell’hotel, un centinaio di persone con i materassi in terra. Due-tre ore a notte. Vestiti».

Il sabato partono i brasiliani.

«Con mogli, figli, famiglie. Appena prima del coprifuoco. Il saluto con loro è stato un momento emozionante. Io e il mio staff siamo stati dei fratelli maggiori».

Non avete pensato di prendere il loro treno?

«No, non c’era posto. E non sapevamo più cosa fare. Il coprifuoco ci impediva di muoverci: sparavano a vista. Per fortuna ci ha pensato Ceferin. Determinante per la fuga. Ha organizzato lui i treni, in collaborazione con la federcalcio ucraina. E in costante contatto con il presidente Gravina. E voglio menzionare anche Evelina Christillin, che si è adoperata da morire, e Stefano Bonaccini».

Riuscite ad andarvene.

«Alle 12 di domenica ci dicono che alle 13-13.30 ci sarebbe stato un treno con un vagone libero per portarci a Leopoli. Bagagli fatti in 10’. Andiamo via con un trolley piccolo e un po’ di scorte da mangiare e bere. Vengono tre militari a prenderci in hotel, ci scortano in auto, con i fucili spianati. La città vuota. In stazione aspettiamo un’ora sotto una tettoia di fianco ai soldati. Ci facciamo 9 ore per Leopoli. Lì, un casino mai visto: persone che arrivavano da ovunque, tanti stranieri. Prendiamo un pulmino con la gente che cerca di infilarsi dentro per scappare. Ci portano via subito, verso l’Ungheria: 6-7 ore per arrivare alla frontiera. Alle 5 di mattina ci portano in un ristorante per fare colazione aspettando che fosse disponibile il passaggio in Ungheria. Da lì ci prende il pulmino del Ferencvaros e ci porta a Budapest, in aeroporto, in volo per Bergamo».

E da qui cosa vede?

«A me ha dato fastidio che non abbiano permesso agli atleti paralimpici russi di gareggiare a Pechino: hanno un’occasione di riscatto ogni quattro anni e gliel’hanno tolta. E poi vedere che il campionato russo continua mi fa ribollire il sangue. Dinamo Mosca e Sochi erano nel nostro hotel ad Antalya. Loro giocano e noi siamo bombardati. Non è giusto. E nessuno dei grandi nomi dello sport russo si è espresso contro la guerra. Esporsi a volte è un dovere».

I giocatori potrebbero giocare altrove.

«I brasiliani sono depressi, vorrebbero giocare. Qualche club mi ha chiamato per averli: mi ha dato fastidio. Ho avvertito i ragazzi: non sbagliate a firmare quando i vostri compagni sono sotto le bombe. Vi comportereste male. Ok mister, mi hanno risposto».

E tu potresti allenare altrove.

«Mi hanno cercato delle squadre all’estero, non ho voluto neanche parlarne. Sì, abbiamo ricevuto una lettera con cui il club ci “libera”. Ma ora non ho l’animo. Non riesco a pensare a un’altra squadra. Ho fatto sette mesi in un Paese, non si cancellano in dieci giorni. Anzi: se dovesse riprendere prima o poi il campionato ucraino, mi piacerebbe fare un altro anno allo Shakhtar, se mi volessero ancora. Ha la priorità assoluta, aspetto finché ci sarà la possibilità di tornare. Qualunque fosse la squadra, anche senza i brasiliani, anche se non volessero o potessero puntare a vincere. Sarebbe importante per me. Perché ci hanno costretto a scappare come i ladri, ma noi abbiamo lavorato. I ladri, i delinquenti sono i russi che ci hanno invaso».

Stava nascendo un grande Shakhtar.

«Eravamo primi a 12 giornate dalla fine. Se ci dessero il titolo a tavolino, non lo vorrei. Lo avremmo vinto sul campo, il campionato. Per anni. In Turchia finalmente cominciavo a vedere il frutto del lavoro, a dirmi “che squadra”. Avevo pure iniziato a pensare come migliorarla ulteriormente. E da un giorno all’altro si è sfasciato tutto. Questa cosa mi distrugge».

Cosa ti hanno lasciato gli ucraini?

«Io non li avevo capiti, perché ero immerso nel calcio. Freddi, chiusi, diffidenti. Ma questa guerra mi ha fatto capire il loro orgoglio, la loro dignità. Hanno la libertà da 30 anni, difendono valori che noi diamo per scontati. Ho sentito dire che Zelensky si doveva arrendere subito perché così porta il popolo al massacro. Ma gli ucraini, tutti, combatterebbero pure se Zelensky si fosse arreso, sarebbero ancora lì a combattere. E poi chi dice così dà alla libertà, alla dignità, all’orgoglio, all’appartenenza un valore scontato, dimenticando che qualcuno lo ha fatto per noi tanti anni fa».

Ti capita mai di sentire ancora le bombe?

(guarda la finestra) «Sì. Anche gli aerei».

Poi accende il telefono, ci mostra il video dell’ultimo gol del suo Shakhtar. E la corsa con i giocatori, lo staff, tutti, verso la curva .