Un anno senza il “Pibe de Oro”. Viaggio a Napoli: oggi Diego vivrà nel racconto di chi l’ha amato

L’edizione odierna de “La Gazzetta dello Sport” dedica uno spazio speciale a Diego Armando Maradona ad un anno dalla sua scomparsa e lo fa attraverso i racconti dei napoletani che lo hanno amato.

Qui non è mai morto. Anzi, Napoli è fatta di milioni di Maradona, ognuno dei 35 milioni di tifosi azzurri nel mondo ha il suo. Diego si è come moltiplicato in un labirinto di passioni che non si scolorisce con gli anni. «Ho visto Maradona» è un mantra trasversale che attraversa strade, condizioni sociali e generazioni diverse. A distanza di un anno dalla sua morte, l’eredità messa all’asta, la famiglia spaccata, la solitudine tragica e il giallo degli ultimi giorni, sono echi lontani. C’è un Maradona che la città custodisce gelosamente. Ogni napoletano ha la sua luce e il suo buio, le sue «smarginature» direbbe Elena Ferrante e la sua Lila dell’«Amica geniale», ma poi ci si ritrova intorno a quegli anni, a quei racconti, a quei murales.

Diego e l’autografo. Il ragazzo di Soccavoe il fiore di Dalma

Siamo al tramonto, la tangenziale strilla di traffico, ma c’è un posto governato dal silenzio: Soccavo. Il cancello è tristemente chiuso, di questo (ex) paradiso di nome e di fatto in cui Maradona e il suo Napoli si allenavano, resta poco. Sulla parete esterna c’è Diego ritratto con sua figlia Dalma che ha in mano un fiore. «Io quella scena l’ho vista – ci dice Giovanni Zorzi, che vive qui dal lontano 1971 –. C’ero pure io. Ero un ragazzino: un giorno cominciai a correre verso di lui che giocava con la bambina. Gli chiesi un autografo, mi guardò un po’ strano e disse: “Io te lo faccio però quando sto con mia figlia lasciatemi stare”. Maradona ci ha fatto sentire il profumo della vittoria e l’ha portato dentro le nostre case».

Diego e il museo. Il figlio in piùdi mamma Lucia

Anche Napoli entrava dentro la sua. È la storia di Saverio Silvio Vignati, che lavorava a Soccavo come custode, della moglie Lucia, la cuoca di via Scipione Capece, è la storia del figlio Massimo che oggi è l’anima di un incredibile museo a Miano, e della figlia Raffaella, che faceva la baby sitter delle figlie dell’argentino. «Chiunque può venire, qui è tutto gratis. C’è quanto abbiamo raccolto negli anni con Diego, uno di famiglia». Mamma Lucia ripete sempre una cosa: «Ho 11 figli, ma poi ne è arrivato uno in più. Non potrò mai dimenticarlo».

Diego e l’investigatore. Due anni di incontrimolto “ravvicinati”

Davanti a quella casa non passavano solo tifosi e curiosi. «La mia agenzia aveva un compito investigativo assegnato dal Napoli. Durò due anni, nel 1988 e nel 1989. All’incarico lavoravamo in 15. Soltanto nel marzo dell’anno scorso – ci spiega Antonino Restino, attuale presidente dell’Az-Investigation – ho parlato di questa storia, la storia di una delle persone che ha conosciuto di più Maradona. Ogni volta tutti vogliono sapere della droga, della camorra, ma la droga non gliela portavano i camorristi. Quella foto con i Giuliano è esistita, certo, fa parte della storia. Ma Maradona era molto, molto altro. Era uno che fermava l’auto, scendeva e giocava a pallone con dei ragazzini. Un giorno, a Mergellina, una donna riuscì a incontrarlo in un ristorante grazie a un amico cameriere: gli raccontò del suo disagio, della sua condizione economica, dei suoi drammi familiari. Diego si tolse un orologio di grande valore e disse: «Prendilo, fattelo valutare bene». Un giorno, Restino rischiò: «Maradona aveva intuito qualcosa, entrò con il volto nella nostra auto, ma la ragazza che lavorava con me mi si buttò addosso, riuscimmo a passare per una coppia e lui si tranquillizzò».

Diego ed Ernesto. Dopo la colazione spazio alle magìe

È il momento del San Paolo Maradona. Davanti c’è il bar di Ernesto, Ernesto Arenoso. Ogni tanto lui riusciva a entrare dentro. È ancora qui, «il bar è gestito dalla mia famiglia da prima che ci fosse il San Paolo». All’inizio è un po’ trattenuto. Poi scatta qualcosa. Comincia con «le pizzette e coca cola di Krol» nell’era pre Maradona. E quindi parte con Diego: «Un giorno entrai. Lui era quasi a centrocampo, vicino aveva Bagni: vuoi vedere come mando il pallone a sbattere su…non ricordo chi ci fosse. Fatto sta che calciò e andò proprio così, colpì chi c’era dietro la porta». Poi Ernesto prende il suo telefonino e comincia a sfogliare le foto, quando trova quella giusta ce la mostra: è lui, con la maglia del Napoli appena indossata. «È il giorno della punizione a Tacconi».

Diego e Sally. Segnali di precedenza e ritratti d’autore

C’è un Maradona per tutti. Anche per chi è nato quando lui se n’era già andato. «Sono del 1991, faccio il tassista, ma non solo. Grazie a Maradona la mia specialità ora sono i ritratti – ci racconta Vincenzo Lamagna – Ho cominciato proprio con lui, tutto è cominciato da una fotografia, ci ho messo una decina di notti. Volevo che Diego vedesse quel ritratto. È accaduto, l’ha avuto e lo ha portato nella casa di Dubai». Vincenzo non ha abbandonato il filone: «Ho inventato un segnale stradale di precedenza dedicato a Diego, lui deve passare per primo». Passa per primo anche in questo museo a cielo aperto di via Emanuele De Deo, ai Quartieri Spagnoli. Per arrivarci si incontra Luciano De Crescenzo che su un muro ci dice che Napoli «è l’ultima speranza che ha l’umanità per sopravvivere». Poi ecco la mitica «Bodega de Dios». Oggi pomeriggio qui ci sarà una fiaccolata. Sono strade in cui Diego è dappertutto. Eccolo con Sally. Insieme, anche se non si sono mai visti. L’autore è Leone Peretti, abruzzese molto napoletano: «Non ho mai conosciuto Sally, mi hanno raccontato dei suoi fantastici giochi di parole. È venuto a mancare qualche anno fa, poi è morto Maradona. Quel murales è di poco tempo dopo: ci sono molto affezionato» .