Escl. Castellacci: «Protocollo per ripartire è rigido. Servono molti tamponi, ma anche…»

Il mondo del calcio ha stilato un protocollo per ripartire. Questo avverrà sicuramente per la Serie A, ma ci sono dei dubbi per tutte le altre categorie. Il dottor Enrico Castellacci, ex medico della Nazionale italiana di calcio e oggi presidente dell’Associazione medici del calcio, intervistato dalla redazione di Ilovepalermocalcio.com ha parlato di cosa rischiano i calciatori contagiati dal Coronavirus, del protocollo del mondo del calcio e non solo. Queste le sue dichiarazioni:

Si è parlato tantissimo del protocollo per far ripartire il mondo del calcio. Secondo lei, questo è privo di rischi?

«Assolutamente no. È stato pensato un protocollo con delle linee guida rigide e rigorose, ma non tutti nel mondo del calcio possono concretizzarle. In questo momento sono state esclude le squadre della Lega Pro e della Serie B perché, specialmente quelle della Lega Pro, non avrebbero avuto le risorse economiche, logistiche e sanitarie per far fronte a queste linee guida. In questo momento le linee guida, se saranno accettate dal commissione tecnico scientifica del Governo, serviranno alla Serie A, l’unica che potrebbe far fronte a queste. Sono linee guida rigide, sarà difficile anche per le squadre di Serie A. A livello logistico, per esempio, non tutte le società di Serie A hanno centri sportivi vasti con delle foresterie e 50-60 camere che devono essere tutte isolate. Se si vogliono creare delle cittadelle chiuse bisogna che ci siano tutte le strutture adatte, quindi: ristornate all’interno, spogliatoi differenziati e camere per tutti. Se queste non ci fossero bisognerebbe pensare a delle strutture alberghiere, però dovrebbero essere assimilate al centro sportivo. Le cose sono due: il personale delle strutture rimanere in quarantena come le squadre e gli staff, perché non è ipotizzabile che un cameriere vada a casa la sera e poi ritorni; oppure i dipendenti del club si fanno onere di tutto. Sono delle problematiche grosse, ma non sono le uniche. Bisogna riuscire a trovare tutti quei tamponi e gli esami sierologici che non vadano minimamente a toccare quelli che servirebbero per il cittadino normale o per gli operatori sanitari, altrimenti questo sarebbe un problema etico. Si dovrà anche ridurre al massimo la possibilità che questo virus attecchisca in queste piccole cittadelle. Il rischio zero è impossibile. Serve uno sforzo grosso da parte dei club e dei medici».

Se un calciatore o un dipendente del club dovesse essere contagiato cosa accadrebbe?

«Questo giocatore verrebbe messo in isolamento, verranno eseguiti tutti gli accertamenti, il tampone ecc… questo anche ai suoi compagni, fino a quando non si  ritrova uno staff senza il virus. Tutto questo riporterebbe a fermare per diversi giorni l’attività di quella squadra e quindi compromettere il campionato. Non sappiamo nemmeno sospeso in maniera definitiva. Noi, in questo momento, non sappiamo nemmeno quando potremo ritornare a giocare perché aspettiamo un decreto governativo perché è quello che fa testo».

Visti i tanti decessi è giusto tornare a giocare?

«È una perplessità che da medico mi sono posto. Il calcio non è la priorità in questo paese, ma ne fa parte. Se le istituzioni decidono e vogliono che si ricominci almeno cerchiamo di farlo partire diminuendo al massimo il rischio dei contagi, altrimenti sarebbe un grosso problema».