«Contenta per Silvia, ma mio figlio dimenticato», il dolore senza fine della mamma di Giovanni Lo Porto

«Sono contenta per la liberazione di Silvia Romano, sono felice per lei e per la sua famiglia che sia tornata a casa viva e che sta bene. Il resto non mi interessa, perché mi ricorda troppo mio figlio che, invece, non è tornato a casa. Anzi, è tornato a casa in una bara. Morto. Mio figlio è stato ucciso dagli americani che avrebbero dovuto salvarlo. Anzi, è stato dimenticato da tutti. Il mio dolore è ancora troppo forte e non passerà mai. Provo ancora tanta, tanta rabbia…».

A parlare, in una intervista esclusiva all’Adnkronos è Giusi Felice, la mamma di Giovanni Lo Porto, il cooperante italiano di Palermo rapito in Pakistan nel 2012 da una formazione jihadista e poi colpito e ucciso da un drone statunitense, dal “fuoco amico”, nel gennaio del 2015 a 38 anni. Nella stessa operazione venne ucciso anche Ahmed Farouq, un cittadino statunitense leader di Al Qaeda. Adam Gadahn, altro americano divenuto un importante leader di Al Qaeda, morì sempre a gennaio di quell’anno, in un altro raid.
Una vicenda dai contorni mai chiariti. La Casa Bianca, con Barack Obama, in quella occasione, chiese anche scusa pubblicamente alla famiglia di Lo Porto, che vive a Palermo. Obama promise, oltre a un risarcimento, anche l’accertamento della verità. Ma dopo tanti anni ancora quell’attacco è avvolto nel mistero. Non si è mai saputo molto sulle circostanze che portarono all’uccisione del giovane Lo Porto. «Io so solo che ho perso un tesoro di figlio. E che nessuno me lo restituirà. Quel giorno ci sono stati due omicidi: quello di mio figlio e quello mio. Io da allora mi sento morta. Morta dentro. Non vivo più. E porto dentro di me l’inferno».

E lamenta anche che Giancarlo Lo Porto «è stato dimenticato da tutti». «Ho notato che quando avviene una liberazione di un ostaggio, come nel caso di Silvia Romano, vengono ricordati tutti i precedenti, ma di mio figlio non c’è traccia da nessuna parte. Dimenticato da tutti». «Questo ragazzo è partito con il cuore in mano e gli occhi pieni di gioia per andare ad aiutare un popolo – dice ancora Giusi Felice – Mio figlio faceva questo lavoro con il cuore. Eppure non viene mai ricordato da nessuno, non so perché. Capisco che anche de venisse ricordato non tornerebbe più, ma lui ha fatto del bene, tanto bene. Dal Pakistan continuano a ricordarlo, mi chiamano spesso, invece in Italia no. Ecco perché sono arrabbiata».

Alla domanda se lo Stato ha fatto tutto quello che poteva per salvare il figlio, la signora Felice risponde: «Lo sanno loro quello che hanno combinato, perché mio figlio doveva tornare. Vivo. Non morto in una bara. Poi c’è stato l’attacco degli Stati Uniti, e sappiamo che nessuno si mette contro l’America. Ha fatto tutto l’America, ha bombardato e ha ammazzato mio figlio. Non c’è altro da dire, io so solo che ci ho perso un tesoro di figlio e basta. E a casa mia da allora c’è l’inferno, io non vivo più. Chi ha sbagliato pagherà un giorno. Ne sono certa. Perché credo in un Dio. Non hanno potuto portare Giancarlo a casa. Ce l’avranno messa tutta. Ma mio figlio ci ha rimesso la vita, perché doveva tornare». Sull’eventuale riscatto che sarebbe stato pagato dal Governo italiano per la liberazione di Silvia Romano, la mamma di Lo Porto, replica gelida: «Lo sanno loro quello che hanno fatto. E, sinceramente, non mi interessa più di tanto. Lo ripeto, sono contenta che sia tornata ma le altre cose non i interessano. Tanto mio figlio non è tornato e non tornerà mai più».

La Procura di Roma inizialmente aveva aperta inizialmente l’inchiesta come sequestro di persona a scopo di terrorismo, l’indagine si è poi allargata fino a comprendere l’ipotesi di reato di omicidio a carico di ignoti. Il pm Erminio Amelio della procura capitolina aveva anche ordinato una rogatoria in Germania per interrogare il cooperante tedesco rapito insieme a Lo Porto e poi, però, a differenza di Giovanni, liberato nell’ottobre del 2014. Ma non è stata fatta alcuna rogatoria negli Stati Uniti.
Giovanni Giancarlo Lo Porto fu rapito in Pakistan nel gennaio 2012 mentre lavorava per un’ong della Germania, insieme a un collega tedesco, poi liberato. Lui, invece, fu ucciso nel 2015, con il cittadino americano Warren Weinstein, in un “signature strike” contro il compound in cui Lo Porto e Weinstein venivano tenuti in ostaggio dai terroristi. «Mio figlio non avrà mai giustizia – dice oggi la madre di Giancarlo Lo Porto – Ma chi ha sbagliato un giorno pagherà con Dio…».