Repubblica: “Gli italiani senza più pallone, 10 milioni negli ultimi 16 anni”

“Dieci milioni di italiani, negli ultimi sedici anni, sono scomparsi dalla mappa del calcio professionistico. Gli ultimi a Bari e Cesena, perché l’onda di fallimenti che da anni travolge le squadre di Lega Pro, ha contagiato pure la Serie B, spazzando via gli incolpevoli tifosi. Non serve che l’infezione arrivi alla Serie A perché la pandemia dei conti in rosso diventi preoccupante. Ogni anno otto club professionistici spariscono in media, nel 2018 tocca all’Akragas di Agrigento e Modena, Mestre e Reggiana, Andria e Vicenza (ricomparirà per la fusione col Bassano di Renzo Rosso, mister Diesel). Dal 2002, quando a morire fu la Fiorentina, sono saltate 153 società, per un totale di 10 milioni di cittadini italiani che hanno perso la propria squadra del cuore. Un milione e mezzo negli ultimi 12 mesi. Non è finita. Le prossime rischiano di essere Cuneo, Matera, Pro Piacenza, persino l’Avellino, intrappolato in un dedalo di fideiussioni al limite. In molti casi le avvisaglie erano note: il Modena, deceduto a dicembre ma in agonia già da ottobre, dopo poche settimane di campionato, era nella black list della Covisoc da giugno. Così come altri club che si sono arresi nelle ultime settimane, dopo un anno a collezionare mancati pagamenti e penalizzazioni. Se a pilotarle verso il fallimento sono presidenti poco attenti e programmi disastrosi, spesso chi potrebbe salvarle preferisce aspettare. Anche senza il lodo Petrucci che consentiva di ripartire dalla categoria inferiore. Ripartire dai dilettanti consente di rinascere con una società senza debiti, senza stipendi gravosi a bilancio, con costi di partenza bassissimi. Costruire dalle fondamenta e salire rapidamente: il Parma – ma pure il Venezia – è un esempio lampante. A farne le spese, sono dipendenti e fornitori: i creditori privilegiati sono le banche, gli altri si vedono cancellare senza preavviso contratti su cui avevano costruito un’aspettativa di vita. Federico Agliardi, ex portiere del Cesena, l’ha appena vissuto sulla pelle: « Io mi ritengo fortunato dice – ma chi pensa alla tutela del lavoro? Chi pensa a quei dipendenti che erano da 20 anni al Cesena e ora devono ricollocarsi. Ci sentivamo responsabili e speravamo che con la salvezza si riuscissero a raddrizzare le cose, non credevamo le difficoltà fossero così gravi » . Non era l’unico club in quello stato. «A tanti colleghi è successo spesso e ogni volta fa malissimo. La situazione è preoccupante, pochi investono nel calcio con idee. Più norme vengono fatte e peggio è: serve controllo. Ma nessuno pensa che una squadra, per la gente, è più di una semplice passione»”. Questo quanto riportato dall’edizione odierna de “La Repubblica”.