Corriere dello Sport, serie A: “Melchiorri: «Io Più forte dopo il male. Sui campi di polvere ho capito il vero senso della vita: senza il Cavernoma non sarei qui»”

“Federico, domenica sei stato l’eroe di una delle più belle favole del campionato. «Non l’ho vissuta come tutti immaginano». Sei quello che ha visto l’inferno della malattia – finito a giocare tra i dilettanti – ed è riuscito ad arrivare in serie A. (Sorride) «Non esagerare: se diventa un film americano non mi ci riconosco. Sono diverso, volo basso».
Sei risorto dopo una operazione al cervello: hai rischiato di morire sotto i ferri, e domenica praticamente una doppietta all’Inter. «Non sai come sono felice, ma non voglio deludere nessuno».
In che senso? «È difficile da spiegare. Ma quell’avventura di cui parli non la vedo come un intoppo della mia carriera. Al contrario». Fammi capire perché. «Mi conosco bene. Oggi, a 29 anni, Federico Melchiorri è quello che è, proprio perché ha fatto questo viaggio».Vuoi dire che quel calvario ti ha cambiato? «Mi ha reso più forte». Ne sei così certo? «Da ragazzo ero sicuro di me, mi sentivo talentuoso, ma ero anche, senza accorgermene, viziato. Mi sembrava tutto facile, tutto… gratis. Senza la malattia mi sarei perso».
Avevi smesso di giocare, invece sei ripartito dal fondo. «Già. Proprio sui famosi campi di polvere del campionato dilettanti, vedendo i miei compagni distrutti dopo una giornata di lavoro ma felici di giocare, è cambiata la cosa più importante: la mia testa».
Dove saresti senza l’operazione al cervello? (Pausa, sorriso amaro). «Sarei un fallito, o fuori dal calcio. Di sicuro meno felice di oggi». Perché? «Tutto quello che ho l’ho conquistato, con il sudore e col sangue. Non potrò perderlo mai più». Federico Melchiorri è esattamente come ti immagini sentendo queste battute. Più maturo della sua età: dice poche parole e non ne spreca nessuna. È nato a Treia, in provincia di Macerata. Nel 2009 ha rischiato di morire. Una diagnosi disperata. Un calvario, una resurrezione contro ogni pronostico. Poi un nuovo grave infortunio, il crociato. E un altro ritorno, quest’anno: due partite, tre gol incredibili e pesanti. La sua storia trasmette emozione, eccola.
Come hai scoperto la malattia? «Nel modo più banale». Racconta. «Ero al Giulianova, in C1. Mi
sembrava di giocare bene». E poi? «Uno dei tanti contrasti di testa. Lì per lì non sento nulla». Nessun dolore? «Uno stordimento che non passa. Decido di fare una tac». E cosa scopri? «Non sono le diagnosi che ti spaventano, ma l’ignoto. All’inizio nessuno capisce. Accumulo visite, consulti, pareri… Poi un giorno la parola terribile: “cavernoma”».
La scena che non dimentichi? «A Verona: “Forse dovrai usare un caschetto, dopo”. Parlano di tempi di lunghi, operazioni, recupero lento. Capisco che sono fuori».
Come mai? «Ero in serie C, Il contratto era agli sgoccioli. Non avevo tutele. L’unica cosa certa: più di un anno ko. Ero su una giostra che improvvisamente si fermava».
Come l’hai metabolizzata? «È una lampadina che ti si accende in testa: “carriera finita”».
Non avevi nemmeno certezza di sopravvivere. «20 maggio 2010 è la data che non posso scordare: operazione al cervello».
Eri terrorizzato? «No, incosciente. Entro in sala operatoria accompagnato da mio padre Enrico e da mia madre Sandra. L’ansia che avevo perduto io era sui loro volti».
Cosa ricordi? «Vengo preso da una sensazione strana, irrazionale fatalità. Entro in anestesia totale pensando leggero: “Chissà se mi sveglio”».
E dopo? «Quella mattina? Solo i sorrisi di mamma e papà».
Ti cambia la vita. «Mi dicono: “Ti è andata bene. Ma dovrai prendere farmaci per due anni”. Ogni tanto mal di testa, ma non è quello il punto».
E qual è? «Mi distacco da ciò che amavo di più, il calcio. Resetto tutto, mi iscrivo all’Università di Macerata e mi dico: “Federì, non era destino”».
Dai sei esami, ma il calcio ti calamita di nuovo. «Torno ad allenarmi, con gli amici di sempre, In seconda categoria, al Montecassiano. Per rimettermi in forma, mi dico, prometto a me stesso: non giocherò mai».
Come la vivi? «Non ho contratto né nulla: è un hobby».
Nel 2011 il destino ti chiama al telefono e ha un nome: Bruno Marinelli. «Era stato il team manager di una mia antica squadra, ai tempi delle giovanili».
Cosa ti dice? «Questa sì che è da film: è spavaldo, ha una voce squillante, un accento marchigiano forte. Mi parla come se ci fossimo sentiti il giorno prima: “Federìii!!! Invece di fare lo scemo in Seconda categoria, vieni in Eccellenza a giocare al Tolentino!”».
E tu accetti. «Non volevo. Ero pieno di dubbi. Mio padre mi fa: “Se non vai non ti rivolgo più la parola”».
Grazie a lui dici sì? «Torno con il gusto di giocare. In una squadra vera, ma con gente come Emanuele Fermani che faceva il muratore fino alle 19.00 e poi rideva mentre si infilava gli scarpini».
Quando avevi scalato le giovanili, non lo avevi provato? «In quel tempo tutto andava veloce, il senso di urgenza non ti fa pensare: imparo in questa seconda vita calcistica qualcosa che nella prima non avevo capito».
Cosa? «Quello che per me è l’essenza del calcio. Devi amare il pallone senza soldi, senza gratificazioni senza nulla».
13 gol in metà stagione, poi 15. Ti vogliono i club forti della categoria: ma resti. «Ero insoddisfatto, insicuro. Papà mi gridava: “Tu sei fatto per il calcio”».
È un esperto? «No. Un pensionato. Si è costruito certezze da autodidatta: mi diceva: “La competenza me la sono fatta seguendoti in mille partite!”».
La Maceratese vince l’Eccellenza ti chiamano. Stavolta vai. «Sento intorno la mia città, gli amici, un mondo. Trovo un tecnico bravissimo, Guido Di Fabio che mi ricostruisce un ruolo».
Alla Maceratese segni 26 gol, un carro armato. «La cosa più bella è che mi fidanzo con Camilla: fa l’infermiera e diventa la mia bussola».
Piovono richieste da tante squadre di serie C. «Ma dico di no: o il grande salto o nulla».
Sembra una follia, invece l’anno dopo ti cercano dalla Serie B. «Vado al Padova segno sei gol che ricordo uno per uno. Poi la squadra fallisce e arrivo a Pescara, a parametro zero».
All’inizio come riserva. «Poi trovo un gemello: Maniero, e ci completiamo. Dove non arriva uno, colpisce l’altro».
Altri 14 gol pesantissimi e, nell’estate del 2015, Cagliari. «Chiama Giulini, una telefonata indimenticabile: “Stiamo facendo una scommessa per tornare in A, vieni!”».
Segni otto reti, una più bella dell’altra, tutti ti amano tutti. Poi un infortunio assurdo. «Il 1 aprile del 2016, in alle
namento mi salta il crociato».
Ti deprimi? «Dovevo ripartire ma stavolta non c’era l’ignoto: avrei lottato contro me stesso».
Devi tutto a un preparatore. «Gianfranco Ibba: il mio mentore, un trapano, un amico».
Cosa ti ha dato? «Quel che da solo non potevo fare: lui ti porta ai tuoi limiti, te li urla. Sa sempre fin dove puoi arrivare, meglio di te. Un po’ psicologo. Un po’ mago».
Torno ai primi di settembre, in un’amichevole a Castelsardo. Lotti come se fosse la Champions anche sul 15 a zero contro una rappresentativa di provincia. «Soffrivo: il corpo non mi rispondeva».
Due gol, due pali, una acrobazia che finisce fuori. «Ero disturbato dai dolori e dai doloretti che ti accompagnano, ad ogni passo, senza darti tregua».
Poi il miracolo con la Samp, prima presenza, primo gol in A. «Ero convinto di non giocare: il ginocchio dava ancora fastidio, il muscolo non era ancora al 100%…».
Invece, Rastelli in panchina si gira e ti dice: “Vatti a scaldare!”. «È lo spirito del calcio. Entro in campo, il dolore scompare: adrenalina, emozione, calore. Non penso più nulla: non al pubblico, al ginocchio o alla fatica».
Arriva una palla lunga, una magia di Tachtsidis. «Scatto. Non sono veloce come penso, ma, un secondo dopo capisco che è una fortuna. Pensavo di arrivare prima io, e invece c’è Viviano».
La palla rimbalza in modo strano. «La traiettoria lo manda fuori tempo. Ci arrivo io. La porta mi sembra minuscola, so che in un secondo avrò tutti addosso e…».
Cosa? «Gol. C’è mio padre che urla in tribuna».
Contro l’Inter Rastelli ti fa partire da titolare: due reti. «La prima è figlia di una giocata fenomenale di Di Gennaro. Poi è tutto istinto. Faccio il primo tocco e poi mi ritrovo dentro la rete».
E il secondo gol? «Tutto il contrario: astuzia omerica di Colombo, che mi ha dato una dritta mentre ci vestivamo».
Cosa ti ha detto il terzo portiere del Cagliari, l’uomospogliatoio? «Mi fa: “Handanovic è un mostro, ma ha un tallone d’Achille».
Quale? «Se salti l’uomo sappi che anticipa il cross per svettare nell’uscita».
E tu? «Ero sulla destra, ho saltato l’uomo ho risentito sentito le parole di Roberto: c’era poco spazio, ma ho tirato in porta».
Come hai festeggiato? Ubriacatura? (Ride) «Ho riguardato la partita con Camilla e ho gongolato da casa».
Cosa hai pensato?
«Ho notato le tante piccole cose da migliorare. Movimenti difensivi che potevo fare meglio, un palla per Sau…».
E il ginocchio? «Ieri non sentivo nulla, oggi i soliti doloretti. Mi fanno compagnia».
Hai rubato il posto a Bor
riello? (Ride) «Non lo conoscete: mi da consigli, mi aiuta. I due gol li abbiamo fatti quando è entrato lui».
Non fare il santo! «Guarda, puoi dare l’anima, sempre. Ma diventi grande quando capisci che si vince solo come squadra».”. Questo quanto si legge sull’edizione odierna de “Il Corriere dello Sport”.