Vivarini: «Sogno Catanzaro in A. Un collega mi ha detto che nessuno gioca nostro calcio»

Ilovepalermocalcio.com Romana Monteverde

L’edizione odierna de “La Repubblica” si sofferma sul Catanzaro e riporta un’intervista al tecnico Vivarini.

Se dovesse accettare tutti gli inviti a cena che riceve, a Vincenzo Vivarini non basterebbero le sere di un anno. «Catanzaro vive un sogno. Mi fermano per strada, mi offrono la colazione, mi dicono: Mister, venga a mangiare a da me! Ma come faccio? Io sono uno solo». A 58 anni l’allenatore abruzzese guida la squadra giallorossa, quinta in Serie B nonostante sia terzultima per costo della rosa. È stato lui a portarla alla promozione lo scorso anno, vincendo in Serie C con 96 punti, un record.

Oggi incontrerete la Reggiana. Contro il Bari ha festeggiato 100 panchine a Catanzaro, lei che ne ha cambiate tante. Cosa prova? «Sono felice, non c’è parola migliore. Tengo alla continuità. Nel calcio serve tempo, ma non lo si ha mai».

La vittoria più bella? «Per me, quella che deve ancora arrivare. Per i tifosi, il derby col Cosenza. In Calabria il campanilismo è feroce. Impensabile una situazione come quella del Cagliari, amato anche nel resto della Sardegna».

Crede veramente di potere riportare la squadra in Serie A, dopo quarantadue anni? «Io guardo un metro davanti a me. Ma mai dire mai. C’è quel clima che se non conosci il Sud non puoi capire».

Da calciatore e da allenatore, lei ci ha vissuto parecchio. «Il calcio ha bisogno di esaltazione, amore, trasporto emotivo. Al Sud ce n’è di più. L’altra faccia della medaglia è che i miei giocatori quasi non possono girare per strada».

L’idolo del pubblico è Iemmello. «Si dice che nessuno è profeta in patria, lui è l’eccezione. È l’unico catanzarese in spogliatoio. Dà tutto in campo, a patto di essere capito. È un rebus, ma è anche fortissimo».

Come avete trattenuto i protagonisti della promozione? «Si divertono. Amano la città, che è in simbiosi con la squadra. E c’è la serietà della famiglia Noto, proprietaria del club».

I nuovi arrivati sono giovani. «Chiedo loro freschezza e spregiudicatezza».

State convincendo i catanzaresi a lasciare le sciarpe dei grandi club e portare quella giallorossa? «Qui sono quasi tutti juventini. Allo stesso tempo, vivono nel mito del Catanzaro in Serie A. Dopo tanti anni, lo stadio è sold out. La Juve è passata in secondo o terzo piano».

Le manca il suo Abruzzo? «Dopo la partita ci tornerò, per votare alle Regionali. Significa volere bene alla propria terra. Ma non fatemi parlare di politica».

Lei è cresciuto con Sarri al Pescara. Come ha preso la sua conversione alla difesa a tre? «Scherzando, dice che mi toglie il saluto. Ma io faccio come Simone Inzaghi: mando in attacco due dei tre centrali. È bello vedere squadre come Inter e Bologna che vincono giocando bene».

Va di moda il sergente di ferro in panchina. Lei ha fama di allenatore alla Ancelotti, che fuori dal campo lascia libertà ai suoi giocatori. «Sono ragazzi, con difficoltà, problemi, pressioni. Se hai una vita triste, lavori male. Il calcio è un gioco. Sono rari i momenti in cui un tecnico deve essere dittatore».

Lei ha sette cani. «Sette pointer, ma cacciare non mi piace. Sono come parenti».

L’esonero più ingiusto? «Quello di Empoli. La squadra veniva dalla retrocessione. L’ho ricostruita da zero. Avevamo qualità, idee, tutto. Mi mandarono via a dicembre: eravamo quarti, in piena corsa per vincere il campionato. Nesta, che allena proprio la Reggiana, vedendo il mio Catanzaro mi ha detto: in Serie B il calcio che fai tu lo ha fatto solo Andreazzoli a Empoli. Non ricordava che nella prima parte della stagione su quella panchina c’ero io».