Davide Enia: «I playoff del Palermo come il Mundial dell’82. E il ritorno degli arabi a Palermo fa parte della ciclicità delle cose»

L’edizione odierna de “La Repubblica” riporta un’intervista all’attore palermitano Davide Enia il quale parla del Palermo impegnato ai playoff.

I play-off per la conquista della serie B possono diventare per Palermo come il Mundial dell’82 vinto dagli azzurri: «Perché, come è successo al Paese con la vittoria della Coppa del mondo, la promozione in B della città è il simbolo della volontà di riscatto e xel bisogno di felicità di un popolo che vive un momento molto difficile».

«Dietro agli interessi per il Palermo da parte degli sceicchi del Manchester City, c’è la ciclicità della storia del ritorno degli arabi in Sicilia, che oggi come nei secoli passati possono portare ricchezza e sviluppo». Ma per Enia, con il tifo appassionato del popolo rosanero che invade le curve degli stadi di provincia, c’è anche l’orgoglio di rivendicare l’appartenenza alla città: «Sono palermitano e lo devo rivendicare ovunque io sia».

La cavalcata del Palermo verso la B è come il nostro Mondiale del 1982, che lei ha portato in teatro con “Italia Brasile 3-2”? «La speranza è che questi playoff siano per il Palermo come la Coppa del mondo del 1982 per l’Italia. O almeno che, a posteriori, possiamo raccontarli con l’epica di quel Mondiale. Ma le similitudini tra la Bazionale di Bearzot e il Palermo di Baldini non si trovano nelle difficoltà della vigilia o nello sfavore dei pronostici».

Che nesso c’è allora? «A Palermo si è creato un rapporto simbiotico tra la squadra di pallone e la sua gente. Nel momento di disillusione e scoramento di una città in crisi, il calcio genera affezione nel pubblico e lo porta a immedesimarsi con l’oggetto del desiderio, cioè la squadra stessa, che diventa proiezione della volontà di riscatto e del bisogno di felicità di Palermo che vive un periodo complicato. Con le dovute proporzioni, tra un paese che si gioca il Mondiale e una città che si gioca una promozione in B, il clima di euforia è esattamente quello dell’82, quando si usciva da un periodo difficilissimo, tra il terrorismo e le prime dure sconfitte dei lavoratori. Come allora il calcio è forza di coesione e di coscienza collettiva di una comunità».

Dopo il clima di disfatta, all’improvviso gli spalti del “Barbera” non sono più deserti. «Da noi si dice che “u’ mortu insigna a chianciri”. E io aggiungo che la vittoria insegna a tifare. E che se si amasse di più il Palermo, si amerebbero di più la città e l’Isola».

Nel 2018, prima del fallimento della vecchia società, lei, da supertifoso disse che si prendeva “un anno sabbatico” dal Palermo. «Erano tempi diversi, adesso c’è un’altra società e un nuovo progetto. Come ho sempre detto, quando siamo ripartiti dalla serie D con il record di abbonati, compreso quello del sottoscritto nonostante io viva a Roma, non importa molto in che categoria giochi il Palermo».

Ci crede veramente alla promozione? «Vincere è l’unico modo per rialzarsi e costruire questa coesione collettiva. Dipende da una combinazione di variabili: tifo, condizione fisica e il “fattore culo”. Senza fortuna non si va da nessuna parte e noi in questi play-off ne abbiamo avuto meno di quanto si pensi. Gli spareggi di serie C non sono i cento metri piani dove vince il più forte, ma il Mortirolo del Giro  d’Italia, dove trionfa chi ha più energie psicofisiche».

Un segnale c’è: le sirene degli sceicchi del Manchester City. «Giambattista Vico aveva intuito che ogni fattore dell’esistenza ha a che fare con l’eterno ritorno. Tutto si ripete. E il ritorno degli arabi a Palermo fa parte della ciclicità delle cose. Non posso che esserne lieto, pensando alla luce, il progresso e la civiltà che portarono in Sicilia e al progetto di lavoro e sviluppo che potrebbero costruire oggi».

Dopo le illusioni del passato, allora è la volta buona? «Tommaso doveva toccare il costato di Gesù per credere. Io devo aspettare la firma sul contratto di acquisto del Palermo. Di certo l’arrivo degli sceicchi creerebbe un polo di lavoro, sviluppo e un volano per l’economia di una città, che come l’Italia intera è ridotta a una grande cucina e un letto».

Resta come punto fermo il presidente Dario Mirri, che oggi nel clima di festa è osannato come agli inizi. Eppure solo poche settimane fa, quando le cose non andavano bene, veniva criticato. «Questo fa parte del carattere umorale del pubblico e in generale dei palermitani, che si lasciano travolgere dalle opposte emozioni, talvolta senza una visione prospettica di ciò che accade attorno alla città».

Palermo è più umorale e più predisposta all’altalena di emozioni che altrove? «Credo che sia un sentimento molto meridionale. Qualcosa che dipende dall’abitudine di “prendere legnate”, che è diventata rassegnazione. Poi a Palermo ci sono “i nemici della contentezza”. Quelli che devono sottolineare ad ogni costo ciò che non funziona, quasi che non si avesse mai il diritto di gioire. Allo stesso tempo la felicità e il dolore qui possono diventare sentimenti assoluti. Anche a rischio di cancellare quanto è stato fatto di positivo».

Lei tifa il Palermo da una vita e il calcio le ha dato molto al livello professionale, quali momenti della storia rosanero ricorda? «Non ho memoria delle due finali di Coppa Italia perse nel 1974 e nel 1979, ma ne ho persa una a Roma contro l’Inter, in mezzo a quella marea indimenticabile rosanerodell’Olimpico. Ma ho anche tifato il Palermo di Caramanno in C2. Fino all’episodio più fresco, la vittoria a Chiavari per 2-1 contro l’Entella. Ero reduce da alcune prove in Toscana ed era la prima partita allo stadio dopo la pandemia, una grande emozione».

Anche lì abbiamo visto una scena che si ripete da anni: stadi di provincia, alcuni anche da poche centinaia di posti, invasi dai colori rosanero. «Sono immagini che mostrano l’immenso amore di chi tifa Palermo ed è orgoglioso di quei due colori che incarnano simbolicamente la città. Come a dire: “Io sono palermitano e ho bisogno di rivendicarlo dovunque io sia”. Ma c’è anche altro». Cosa? «Il dramma della gigantesca
emigrazione che la Sicilia continua a subire per assenza di prospettive di lavoro. E che dovrebbe farci riflettere sul fatto che la politica non ha fatto nulla per garantire a persone nate in luogo di poter scegliere se viverci o meno per il resto della loro vita. E anche ricordarci che la diaspora dei nostri parenti o amici in cerca di vita migliore è la stessa che anima le migrazioni del mondo».