L’edizione odierna de “Il Corriere dello Sport” si sofferma sul calcio sempre più costoso per le famiglie e per i giovani talenti.

Nel mondo reale, lontano dalle agevolazioni fiscali per i grandi club e dai petrodollari del calcio patinato, un figlio che gioca a pallone condiziona l’economia familiare e costringe mamma e papà a fare i salti mortali per far quadrare i conti di una passione. Sono lontani i tempi in cui il talento si formava sull’asfalto, sui ciottoli sconnessi o nella migliore delle ipotesi all’interno degli oratori tra un Padre Nostro e un tiro a giro. Oggi le scuole calcio sono gli unici varchi che portano a una speranza di carriera. Solo che costano un patrimonio, e non sempre per diretta responsabilità di chi le gestisce.

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LE FAMIGLIE. I prezzi variano e il confine tra l’attività di base e quella agonistica è netto: l’attività degli Under 12, oggetto di questa inchiesta, alle famiglie costa quasi il doppio di quella degli Over 12. Il calcio è sempre lo sport più oneroso, ma lontano dalle grandi città i costi sono inferiori con quote d’iscrizione che si attestano sui 400-500 euro annui. Milano e Roma sono le città più care: nelle metropoli una retta va dai 600 ai 1000 euro, a seconda del quartiere, del blasone dell’associazione e della sua struttura; ad esempio, i club di puro settore giovanile sono generalmente più economici rispetto a quelli che hanno una prima squadra in Eccellenza, in Serie D o magari nei professionisti, chiamate a sostenere di conseguenza costi maggiori. Oltre alla differenza tra centro e periferia, ne esiste una altrettanto marcata tra Nord e Sud. In Molise, ad esempio, l’Aesernia Fraterna spende 25 mila euro l’anno per l’affitto delle strutture mentre a Roma il Savio, per citare un altro caso, quasi il doppio.

Gli impianti sono quasi tutti comunali, ma la manutenzione – anche straordinaria – pesa sulle spalle dei club. Alle quote per le iscrizioni vanno poi aggiunte quelle per il kit, dai 100 ai 200 euro a seconda del marchio. Anche qui, il carico è sulle famiglie. Immaginatene una con due figli calciatori: dalle tasche dei genitori possono uscire anche 2 mila euro in dieci mesi di attività, 200 al mese, senza considerare poi gli oneri quotidiani come la benzina per accompagnare i bimbi agli allenamenti o alle partite. A proposito: assistere alle gare non è più gratis ovunque, come un tempo e c’è chi fa pagare il biglietto anche per un campionato Under. Tornando a maglie, pantaloncini, giubbini, tute e via discorrendo (materiale usa e getta, i piccoli crescono…), alcuni includono questa spesa nel costo dell’iscrizione mentre altri chiedono di pagarla a parte. C’è anche chi trattiene per sé qualcosa in più del dovuto. Esempio concreto: attrezzatura sportiva pagata 100 euro dal fornitore e rivenduta 150 alle famiglie. Bisogna pur campare, dopotutto.

COSTI VIVI. L’altra faccia della medaglia sono i costi vivi per le società: istruttori, personale, utenze, strutture, iscrizioni ai campionati, scouting, trasporti e non solo. Anche le spese per tesseramento e affiliazione alla Figc sono aumentate. «Tesserare un bambino pochi anni fa costava 9 euro, oggi 22,50. Per non parlare dell’affitto dell’impianto, passato da 1.000 a 2.000 euro al mese» denuncia Claudio Benanti della Vis Palermo. Fare calcio di base, oggi, è un’impresa.

DILETTANTI A CHI? La Settignanese, dove è cresciuto tra i tanti Federico Chiesa, ha 88 collaboratori, tutti con contratti co.co.co, tra cui autisti, segretarie, magazzinieri, custodi, dottori e addetti alle pulizie. «Oggi siamo professionisti senza scopo di lucro, chi mi chiama dilettante mi offende» è il motto del presidente Maurizio Romei. La riforma ha tagliato le gambe alle asd, spazzando via ciò che restava del volontariato. «Solo di consulente del lavoro paghiamo 7.500 euro per dieci mesi», ci racconta Luigi Maione della Real Casarea di Casalnuovo di Napoli. «Facciamo tutti un altro lavoro, ma da presidente il mio hobby era andare al campo… ora passo il tempo a compilare carte» l’amarezza di Michele Antenucci dell’Aesernia Fraterna. Lo Stato ha voluto dare dignità a un mondo sommerso che durante la pandemia ha legittimamente alzato la voce per ottenere bonus e diritti; il prezzo da pagare è stato, però, un incremento di norme e burocrazia. Come se non bastasse, c’è stata l’abolizione del vincolo pluriennale: per molti è un atto di civiltà – le storie di ragazzi ostaggio dei presidenti sono tristemente note – per altri è una condanna. Una società di puro settore giovanile investe risorse per anni affinché un giovane cresca e sviluppi il proprio talento; poi arriva la big che lo porta via gratis e tanti saluti. I premi di formazione sono ridotti all’osso. «Prima guadagnavamo in media 80 mila euro l’anno dai cartellini, oggi zero» ci confida un presidente. Il caro bollette è stata l’ultima picconata: «In dieci anni siamo passati da 30 mila euro di utenze l’anno a 90 mila» ricorda Max Borsani dell’Aldini Milano, altra fabbrica di campioni. Nei grandi capoluoghi la bolletta dell’acqua arriva a 1.600 euro al mese, quella del gas a 1.000 e la luce anche a 2.000. E così il costo delle utenze finisce per pesare quanto quello degli allenatori, del personale e dello scouting messi insieme: anche per questo motivo non produciamo più campioni.

SOCIALE. Le società non sono solo fruitori di un servizio chiamato calcio, in alcuni quartieri rappresentano patrimoni sociali inestimabili: il padre di Massimo Testa, Vittorio, nel ‘46 fondò il Tor di Quinto con Palmiro Togliatti «e noi per statuto non facciamo pagare la scuola calcio, perché a quel tempo era finita la guerra e decisero di aiutare la povera gente… ». C’è chi sostiene progetti per i diversamente abili, chi abbatte le quote per chi è in condizione di marginalità economica, chi fa attività con gli immigrati (due casi: Liberi Nantes e Atletico Diritti) e persino chi promuove un progetto chiamato “adozione sportiva”, come fa in Sicilia Umberto Calaiò, fratello dell’ex attaccante Emanuele, per spingere le aziende a pagare una o più rette per i ragazzi in difficoltà sottoforma di sponsorizzazione. In una scuola superiore di Ponticelli, dal 2015, la Real Casarea ha creato una sezione “orientamento sportivo” nell’ambito dell’indirizzo di studio Amministrazione, Finanza e Marketing, con lo scopo di approfondire le tematiche legate al mondo del calcio. Ha una forte vocazione sociale anche la scuola calcio che Gigi Riva fondò a Cagliari nel 1976, appena appesi gli scarpini al chiodo: «Negli ultimi dieci anni le spese sono duplicate – sostiene Nicola Riva, figlio di Gigi – purtroppo navighiamo a vista, e di conseguenza le quote delle iscrizioni crescono in parallelo un po’ ovunque: nel 2013 facevamo pagare 300 euro, oggi 500».

SPINA. La spina dorsale del calcio è in sofferenza e rischia di essere cancellata da tutte le mappe. Eppure in questo humus fertile sono nati i talenti che hanno fatto la fortuna dei club e delle Nazionali, quando eravamo esportatori di talenti e le nostre big attingevano a piene mani ai vivai anziché sostenere un decreto che rende più conveniente l’acquisto all’estero. È perdendo di vista questo bacino che siamo giunti al 65% di stranieri nelle rose di A (erano il 55% nel 2019) e al 35% in Primavera (+20%), con il minutaggio degli italiani nel massimo campionato sceso dal 68% del 2005-06, la stagione che ci ha portato all’ultimo titolo mondiale, al 33% di oggi. Chissà se dal fondo si possa davvero solo risalire.