Ex rosa, Pastore: «Ho preferito Palermo a Milano, mi sentivo più a casa»
L’ex rosanero Javier Pastore ha rilasciato una lunga intervista a “Ultimouomo.com” parlando in merito alla sua esperienza al Palermo.
Non sempre piano piano in realtà.
«In Argentina, quando ero all’Huracán, è successo tutto molto velocemente in effetti: sono esploso in sei mesi, ho fatto 8 gol e ho giocato molto bene, mi chiamavano il Milan, il Chelsea, tanti grandi club europei… però io normalizzavo tutto nella mia testa. Mi sono seduto con il mio procuratore, che mi diceva: guarda, ci sono tutte queste squadre che ti vogliono, dove vuoi andare? Io ne ho parlato con i miei, ci abbiamo pensato insieme, e alla fine ho deciso: la scelta migliore era Palermo».
Una scelta “paziente”.
«Sì, assolutamente. Era appena arrivato in Serie A, c’era un presidente che mi voleva molto e l’allenatore era consapevole di quello che voleva il presidente. Io penso che la carriera di un calciatore deve essere continua, facendo un passo alla volta, senza fretta. Quando salti dieci passi, senza fare il percorso in mezzo, può arrivare un momento in cui vai giù. Io ho sempre pensato così, ho sempre voluto andare piano piano in questo senso. Mi sentivo più a casa andando a Palermo che all’idea di venire qui a Milano, ad esempio: avevo 18 anni, mi avrebbero mandato a giocare in una squadra più piccola e mi sarei chiesto perché, se fosse una buona cosa per la mia carriera, se stessi rischiando di bruciarmi. Il Palermo invece mi voleva davvero, e credo di aver fatto una scelta giustissima andando lì. Perché tutto quello che è successo, è arrivato un po’ alla volta, mese dopo mese; sì, finita la prima stagione era già arrivata la chiamata in Nazionale, e dopo il secondo anno – che per me è stato incredibile – avevo una grande occasione, ma sentivo di star facendo un passo alla volta, senza forzare i tempi».
A quel punto, ti sentivi pronto per un top club.
«Sì, ma anche in quel momento sarei potuto andare in tanti grandissimi club, mi voleva ancora il Chelsea ad esempio, ma ho scelto Parigi, che è una piazza molto bella, aveva un progetto serio, e mi ha convinto perché sarei partito con una squadra di metà classifica più o meno. Quella stagione abbiamo fatto molto bene, siamo andati in Champions, sono arrivati i primi acquisti che avevano promesso ed è iniziato tutto».
Prima dicevi: «Felice del mio percorso, anche se non è stato tutto perfetto».
«Ho avuto momenti positivi e momenti negativi, come normale. Mi dispiace per come sono andate le cose a Roma, sicuramente: speravo di avere un percorso più lungo lì, di riuscire a dare di più. Ho fatto delle partite buone, la gente si ricorda alcune giocate di qualità, ma avrei voluto fare molto di più. Purtroppo tra i problemi che ho avuto, gli otto mesi fermo per recuperare dall’intervento all’anca, è andata così. Peccato».
Anche per come è finita.
«Sì, quando c’è stato il cambio di proprietà. Nel momento in cui la Roma è stata venduta, io ero infortunato da mesi, dopo l’intervento all’anca: dovevo capire se sarei potuto tornare in campo, quando, in che condizioni. Loro purtroppo sono arrivati proprio in quel momento, e mi hanno detto fin da subito di non volermi. A me rimanevano due anni, ed era il mio ultimo contratto importante, quindi era una situazione difficile anche dal punto di vista economico. Io però capivo la loro prospettiva e conoscevo la mia condizione fisica, e alla fine ho pensato più con il cuore che con la testa: mi sono svincolato durante l’ultima settimana di mercato, per cercare un posto più tranquillo dove testare il mio corpo e capire se potevo tornare a giocare».
La scelta di scaricarti è firmata più Friedkin che Mourinho, quindi. Come l’hai presa?
«È stata sicuramente una scelta della società, anche perché già prima che arrivasse Mourinho erano stati chiari con me su questo punto. Mi è dispiaciuto molto perché io mi ero operato e avevo fatto sette mesi di riabilitazione per cominciare quell’anno con la squadra, fare la preparazione estiva e le amichevoli con il gruppo, dimostrare che potevo tornare bene dopo l’operazione all’anca. Non mi è stato permesso, però: sono stato un mese e mezzo ad allenarmi da solo, lontano dalla squadra, e quella non era una reale opportunità per me. Mi sarebbe piaciuto almeno avere un confronto, parlare con un allenatore che mi dicesse – in faccia, di persona – «preferisco un altro tipo di giocatore», o «ho dovuto scegliere tra lui e te». Io invece con Mourinho non ho mai parlato, nemmeno una volta».
Ti aspettavi un trattamento diverso da Mourinho?
«Non saprei, ho tanti amici che hanno giocato per lui ma a me non è mai capitato. So che ognuno ha la propria esperienza con lui, e credo che il suo rapporto con i giocatori ultimamente sia cambiato molto, almeno per quello che ho saputo dei suoi anni al Chelsea e al Manchester United, gli ultimi grandi club dove ha allenato. Non si fa problemi ad andare contro i “veterani”, a dare più responsabilità ai giovani. A Roma c’eravamo io, Fazio, Pedro, Nzonzi, giocatori di grande esperienza che la società non voleva più e che lui non ha voluto “proteggere”, diciamo. Mi è dispiaciuto, lo dico sempre, ma nel mondo del calcio sono cose che succedono».