Gazzetta dello Sport: “Lunel, dove si muore per il Califfo. Viaggio nella «Jihad City» con vista sul ritiro italiano. Il calcio è l’ultima barriera”

“Un manifesto che pare uno schiaffo: «Amici, familiari, agite prima che partano». Sottinteso: che partano per le terre del Califfo. La sveglia è all’ingresso della grande Gendarmerie poi, sotto, il numero verde contro «la radicalizzazione violenta e l’arruolamento jihadista»: è un problema piuttosto sentito qui nella famigerata Lunel, «la capitale del terrorismo francese» come semplificano in tanti. Bastano trentacinque chilometri di autostrada, tra alberi e colline sinuose, e arrivi a Montpellier, dove l’Italia pianterà le tende per l’Europeo. Troppo vicina agli azzurri, troppo cupe le notizie piovute da questo borgo di 26 mila abitanti in Linguadoca: la presenza radicale a Lunel si è fatta crescente, preoccupa chi veglia sulla sicurezza degli azzurri. In venti ragazzi sotto i 30 anni sono partiti verso la Siria negli ultimi mesi, 8 di loro sono morti in battaglia: ammette di averli conosciuti chi passa dalla Moschea cittadina, l’origine di ogni male per i duri e puri del Front National, in crescita vertiginosa da queste parti. Qualcuno dice di aver pregato con loro, ma a nessuno interessa spendere una parola in più. Al resto pensano gli agenti che premono con indagini e operazioni mirate: l’attenzione è quadrupla dopo che una commissione parlamentare ha dimostrato inefficienze e ed errori nei casi di partenze verso il Califfato a fine 2014. ITALIA E SICUREZZA Spesso per strada si vede anche l’esercito e le misure di sicurezza cresceranno con l’inizio dell’Europeo: l’Italia stia tranquilla ­ fanno sapere gli agenti ­, in questo ambiente militarizzato è più facile fermare eventuali teste calde. Anzi, l’evento interessa parecchio la comunità, un quinto circa degli abitanti: Jamel Benabdelkader, ad esempio, non sta nella pelle, lui che ha giocato fino alla terza serie. Quando il mondo ha scoperto Lunel come «Jihad City», quando le tv hanno filmato qualcosa di diverso rispetto alle amate corse dei tori della zona, era il vice presidente della Moschea. E c’è pure suo nipote Mohammad tra le anime ingoiate dalla propaganda e finite cadavere: «Le immagini delle violenze di Assad, certi folli video di predicatori su Internet, la solitudine, il conflitto generazionale, un amico che fomenta, l’illusione di poter vivere la propria fede in maniera totale: così troppi ragazzi si sono persi, è una storia triste, ma finita», racconta adesso. Esclude «recrutatori esterni» alla comunità, aggiunge che l’ambiente è «decisamente moderato» e ripete sempre la parola chiave: «Identità. È quello che manca a molti ragazzi emarginati socialmente ed economicamente. Mio padre arrivato dal Marocco ha combattuto con l’esercito in Indocina. Io devo tutto a questa Paese, mi sento orgogliosamente francese». Ha una lunga baguette in auto come conferma. CUORE SPEZZATO Nella ville­centre, cuore colorato della cittadina, un tempo erano solo boutique francesi, poi è arrivata la crisi e adesso i proprietari hanno tutti la barba: un lungo elenco di locali arabi e macellerie di ottimo kebab. Benabdelkader ne addenta uno, poi vede passare un ragazzo: si chiama Rachid, è preoccupato per suo fratello, arrestato con altri quattro in un blitz a gennaio come sospetto salafita. Nel calderone, anche 30 persone sorvegliate e 10 con il braccialetto elettronico, ma lo scenario non rassicura poi tanto Philippe Moissoinier, consigliere di opposizione d’area socialista. Anzi, sulla questione carica come un ariete: «La situazione resta delicata perché la moschea è stata infiltrata – denuncia ­: chi è partito, ha lasciato qui amici e parenti. Ormai la popolazione è divisa, manca inclusione». E torna diretto al caso dell’ultimo imam, Elhaj Benasseur: per lui sarebbe fuggito dopo essere stato minacciato e aggredito da chi lo considerava troppo occidentale. La comunità musulmana sforna un’altra versione: avrebbe pesato solo il fatto che parlasse in arabo, non in francese. Chi lo ha sostituito ad interim, Abderaman Fatih, custodisce invece una storia che molto racconta di questa strana città: tempo fa aveva pregato gli agenti di occuparsi del figlio, sospettava volesse andare a combattere Assad ed era disposto pure a farlo arrestare. Nessuno gli ha mai dato retta e adesso quest’uomo ha il cuore spezzato: il ragazzo è morto. Così non vuole venire più nessuno a predicare in moschea: troppo difficile l’ambiente a Lunel, soprattutto in quest’era di immensa pressione dei media. Moissoinier, ad esempio, si è messo a contare i cronisti: «Siamo arrivati a 75 da ogni angolo nel mondo: speriamo serva a qualcosa, la soluzione è che dentro alla comunità musulmana si spezzi una volta per tutte ogni legame sospetto». CALCIO ALLA VITA Intanto, nel corso è un via vai di mamme velate: qualcuna prende i figli da scuola, molte li portano all’appuntamento più importante della giornata. Allo Stade Besson si allena l’Us Lunel, un fiore nato in città. La società sportiva raccoglie i ragazzi dei quartieri popolari, arabi in larga parte ma pure «bianchi» felici di inseguire una palla: nessun prezzo per iscriversi, allenatori qualificati e tanta gioia lontano dalla cupa cronaca. «Noi occupiamo il campo, proprio come si fa nelle partite di calcio – racconta Rashid Taibi ­. Il campo è la vita di questi bambini e ragazzi, e noi la occupiamo con lo sport che è anche educazione e regole, quello che serve perché nessuno venga deviato». Basta poco: stare insieme, stare uniti. «Soltanto chi è solo può perdersi», aggiunge Amar, il fratello di Rashid, tuta alla Mazzone e urla alla Trapattoni da bordo campo. Su questa erba naturale si allenavano anche alcuni di quelli che hanno scelto il Califfato per fare la guerra alla Francia, soprattutto Mohammed che giocava in difesa e aveva talento: «Ricordo i suoi modi gentili, non ha mai dato segni di radicalismo, per questo non dobbiamo mai perdere di vista l’obbiettivo: parlare ai ragazzi, farli sentire importanti». Oltre la pista di atletica, trovi pure chi non ti aspetti: «Sì, ho il velo e amo il calcio», sorride Said Leila, allenatrice della squadra giovanile femminile, la prova vivente che «anche una musulmana può e deve far sport». Attorno a lei le bimbe corrono, calciano, fanno il torello, poi tutte ferme ad ascoltarla: «Hanno sentito dei terroristi, fanno domande, cercano di capire chi sono. Io uso il calcio per indicare la strada e spiegare il vero Islam: rispetto e gioia, come quella che ci fa vincere in campo». Molte vittorie, però, passano dalle mani di Yasmine, la figlia del presidente Thaibi, un gatto tra i pali. Il Montpellier vorrebbe metterla sotto contratto, ma per il momento sta benone qui: in fondo, c’è futuro pure a Lunel”. Questo quanto si legge sull’edizione odierna de “La Gazzetta dello Sport”.