Nelle pagine del Corriere dello Sport, Giorgio Marota racconta un Franco Vázquez più autentico che mai: l’Argentina dei soprannomi lo ha battezzato “El Mudo”, ma a Cremona la sua voce è limpida, riconoscibile, quasi musicale. Da tre anni è uno dei simboli della Cremonese, «un tempo in cui ho imparato cosa significa sentirsi a casa», confida al Corriere dello Sport.
Il Mudo, oggi 36enne, sorprende per lucidità e ambizione: «Posso arrivare ai 40 anni come Modric o Dzeko. La passione è il mio motore».
Il sinistro resta la sua firma: «I migliori sono mancini. Come Dybala», ricorda nell’intervista firmata da Giorgio Marota del Corriere dello Sport.
Tra Italia e Argentina, Vázquez ha vissuto un privilegio raro: «Un orgoglio immenso. Ho rappresentato il Paese di mia madre e quello di mio padre». E guarda con ottimismo all’Albiceleste: «Nel gruppo c’è la fiducia di chi ha già vinto». Al contrario, soffre per l’Italia: «Un altro Mondiale senza di voi non si può pensare. Per me la Serie A resta il campionato più bello».
Il suo ritorno in Italia gli ha mostrato un calcio diverso: «Più corsa, più contatti, meno fantasia. I numeri 10 stanno sparendo, il gioco va verso forza e velocità. Dybala è un fiore raro». Inevitabile il ricordo di quell’annata indimenticabile: «Io e Paulo ci sentiamo almeno una volta a settimana. Quando si è fatto male mi sono preoccupato. È un fratello. A Palermo eravamo una coppia perfetta: mi sono divertito da matti con lui».
Oggi il partner d’attacco è Vardy, che Vázquez descrive con sincera ammirazione: «Un altro campione. Attacca sempre lo spazio, fa movimenti incredibili. Il problema? Io non parlo inglese e lui non parla italiano. Ma il calcio è un linguaggio universale».
Allo Zini arriva la capolista e Vázquez non ha dubbi: «La Roma è tostissima. Fisica, veloce, aggressiva. Avrei voluto essere allenato da Gasperini: ti migliora, dà agli attaccanti mille occasioni». Un rimpianto che torna anche nel racconto di Giorgio Marota sul Corriere dello Sport, quando ricorda l’incrocio sfiorato tra il Mudo e il tecnico ai tempi di Palermo.
Nicola, invece, lo conquista ogni giorno: «Ha una carica travolgente, tatticamente siamo evoluti e lui vuole sempre di più».
Il soprannome, “El Mudo”, nasce quasi per caso: «Da ragazzino ero introverso. In Argentina i soprannomi non te li togli più. Mio fratello era El Mudo, io El Mudito. Quando lui è andato via, sono diventato il muto maggiore». Un titolo che ora porta con ironia, dopo stagioni di personalità e parole pesate.
Non manca un passaggio difficile: la squalifica per un insulto giudicato discriminatorio. «Sono stato male. E triste. Sono stato anche operato per un colpo in faccia. Ma ho imparato che dopo il dolore arriva sempre qualcosa di bello».
E il futuro? «Il Belgrano, casa mia. Voglio chiudere lì la mia carriera». Un cerchio che si chiuderebbe dove tutto è iniziato: «Ero in campo il giorno in cui mandammo il River Plate in B. Ci davano per spacciati, ma eravamo troppo forti. Più forti di tutto».