Nella sua lunga intervista pubblicata sulla Gazzetta dello Sport, Francesco Pietrella entra con delicatezza nella storia di Fabiana Raciti, figlia dell’ispettore capo Filippo Raciti, ucciso il 2 febbraio 2007 durante Catania-Palermo. Una famiglia siciliana che, come sottolinea Pietrella sulla Gazzetta dello Sport, da diciotto anni ha un rapporto stravolto con la normalità: niente più routine, solo ricordi spezzati, dolore e una ferita annunciata in diretta televisiva.
Fabiana, oggi 34enne, ricostruisce con lucidità chi era suo padre: «Una persona presente e premurosa, un uomo di cultura e sensibilità». A Francesco Pietrella, racconta il senso del dovere trasmesso a lei e al fratello Alessio, cresciuti sapendo degli incarichi più rischiosi: dal G8 di Genova ai servizi in Lampedusa, dalle partite alle grandi cerimonie di Stato.
La figlia dell’ispettore ha rivisto quel giorno mille volte. «Abbiamo appreso della sua morte in diretta», spiega alla Gazzetta dello Sport. Una striscia rossa sullo schermo, un silenzio infinito. Una violenza che ha travolto la loro vita e trasformato la madre, Marisa, in “uno scudo”: vedova a 34 anni, sola con due figli e costretta a farsi megafono di una richiesta di giustizia mai gridata con odio.
A Pietrella, Fabiana racconta anche gli anni seguenti: un liceo pieno di scritte vergognose sui banchi («10, 100, 1000 Raciti»), minacce al telefono e sui social, citofoni incendiati. «Mi chiedevo: perché ferire una famiglia già ferita?». Dolori che hanno influito sulla sua formazione: una laurea in giurisprudenza con una tesi dedicata proprio al padre, un modo per trasformare il trauma in contributo. «La sua morte fu uno spartiacque nella gestione della sicurezza negli stadi».
Sul dolore, Fabiana è netta: «Ci convivo come una malattia, un ospite indesiderato». E sui responsabili, Antonino Speziale e Daniele Micale, risponde senza esitazioni: «Non si sono mai scusati. Resto fedele alle sentenze». L’unico ricordo che conserva dell’ultima volta è quello di un corpo su una barella. «Io posso parlare solo delle nostre mancanze, del vuoto».
A Francesco Pietrella della Gazzetta dello Sport, la giovane racconta anche le scorie lasciate nell’ambiente: ipotesi di “fuoco amico”, voci, cattiverie. «Ignoranza», dice. E individua ciò che manca: «Un passo avanti». Cita una via di Acireale intitolata al padre ma senza targa: «Una mancanza di rispetto». Pur apprezzando i riconoscimenti istituzionali, come l’aula magna di Nettuno e l’aula del Senato a lui dedicate, Fabiana sottolinea che dalla Sicilia i segnali arrivano meno.
Resta forte il messaggio al mondo del calcio: «Negli stadi convivono gioia e odio. Se mio padre è morto per difendere valori così fragili, c’è qualcosa che non va». La speranza, conclude, è che ciò che è accaduto quella sera non resti solo memoria: «Vorrei che diventasse un seme, non un ricordo».